A un capo dai tratti forti serve un nome altrettanto fuori dal comune: il bavero pronunciato e i dettagli decisi del Ganassa di SEASE sembrano fatti apposta per vestire personalità visionarie e fuori dal comune.
Il Ganassa Project coinvolge personaggi che non passano inosservati. Nasce dal desiderio di raccontare imprese e persone straordinarie, che ci ispirano ogni giorno.
Ganassa, termine milanese colloquiale, denota uomini dal volto espressivo. Descrive personalità altrettanto decise, caratteri intensi. Beffardo, irriverente, sicuro di sé, il vero Ganassa é sempre pronto alla sfida. Per raccontare le passioni che animano i Ganassa, abbiamo scelto ritratti unici, fuori dagli schemi.
Ganassa 001 Dario Noseda

Attraversare l’Atlantico è il sogno di ogni velista. Farlo in solitario a bordo di una semplice Star è altro. E’ un’idea ‘sbagliata’, e può sfiorare solo alcuni tipi umani. Come un Ganassa. Dario Noseda, classe ‘68, é protagonista di una traversata atlantica in solitaria a bordo di una Star che gli é valsa il titolo di Velista dell’Anno 2018. Dario descrive il suo mezzo così:
Quando ti ho vista
di Dario Noseda
La prima volta che ti ho vista era it 2007.
Eri sola e mezza scoperta, un po’ sporca, si intravedevano le tue forme
che come d'incanto hanno attirato Ia mia attenzione.
Che cosa ci facevi lì al freddo - era Dicembre, in quel parcheggio all'aperto,
dietro quelle sbarre metalliche da cantiere, incrostate di cemento e chi sa altro.
E' vero non sei stata Ia mia prima Stella, ma pur sempre Ia seconda,
ma mi sento di dirti che sei entrata neila storia non solo mia,
ma di tutti quelli che ti hanno seguita, ammirata, toccata, criticata, denigrata, beffeggiata e offesa:
solo tu nella tua classe hai attraversato quell'immensa distesa d'acqua salata, che entrambi sognavamo.

Nel racconto della sua impresa, come nella vita a terra, alterna pragmatismo a lampi di lucida follia.
“Mi guadagnavo da vivere insegnando vela ai tropici. Santo Domingo, Cuba, Messico e Antigua. Ho iniziato allora a cullare il sogno dell’Atlantico. Dieci anni fa, in Italia, ho cominciato a andare in Star e per regate. Ogni giorno amavo la Star sempre di più. Feci tesoro dei consigli di Alfio Peraboni, ultimo italiano che con Dodo Gorla al timone vinse una medaglia olimpica in Star.
Nella mia mente era tutto chiaro.
Volevo fare l’Atlantico. Volevo farlo da solo. Volevo farlo in Star.
Non l’aveva mai fatto nessuno, e la Star era la mia barca anche nel senso più banale: l’unica.
Iniziai a pensare alle modifiche. Ho rinforzato l’attacco tra scafo e coperta. L’albero, sostituito con uno a sezione maggiorata e non passante. Poi, attacchi delle sartie più profondi e riduzione del pozzetto in favore del calavele, dove è stata ricavata una cuccetta. Boma accorciato, randa, avvolgi-fiocco e una vela di prua da lasco hanno determinato il nuovo piano velico.
La traversata atlantica
In barca non potevo portare niente. 80 litri d’acqua, cibo pronto studiato dal mio dietologo – le buste che ha usato Samanta Cristoforetti in orbita – desalinatore manuale, fornelletto, una certa quantità di cibo secco e scatolame per mia serenità personale.
A fine estate del 2017 parto. Dall’Italia con furgone, carrello e barca, da Cadice con un cargo.
L’11 novembre, da Tenerife, solo, destinazione Bahamas.
Dopo quattro giorni, l’impianto elettrico – unico lavoro che avevo delegato – va in corto. Sono costretto a uno scalo tecnico a Capo Verde, dove sostituisco batterie e collegamenti, cambiando i cavi che erano stati sottodimensionati.
Riparto alla volta di Martinica. I primi sei giorni, uno spettacolo. Il vento giusto, la barca volava. A bordo tutto funzionava. Finché un altro corto manda di nuovo in blocco la strumentazione. Da allora, sono rimasto solo con Gps e telefono, navigando fino ai Caraibi senza timone automatico.
Di notte cercavo di mettere la Star alla cappa, ma mentre dormivo andava dove voleva. Ogni mezz’ora dovevo svegliarmi a svuotare il pozzetto. Una notte, uscendo insonnolito per aprire gli svuotatori del pozzetto, un’onda mi ha fatto scivolare in mare. D’istinto mi sono girato, ho afferrato la scotta di randa, e sono tornato a bordo. Da lì mi sono legato anche mentre dormivo sotto coperta.
Per il resto, pochi strascichi. Ero in movimento, dormivo pochissimo e male. Sopperivo alle ore di sonno perse bevendo e mangiando come un lupo, ma comunque ho perso 18 chili.
Navigavo tra due perturbazioni, una in alto Atlantico che stava scendendo, e un’altra da est che mi stava inseguendo. Mi dovevo tenere al confine tra le due. Ho attraversato un groppo per 16 ore: pioggia e vento, 40 nodi, solo randa con tre mani. Non è successo molto altro, sono passati 22 giorni e sono arrivato.



L'arrivo
L’ultima sera di navigazione, oltre l’isola di Santa Lucia, sapevo che sul versante orientale di Martinica non ci sarebbe stata luce e mi ero accordato con una barca dal porto per l’avvicinamento notturno. La mia compagna aveva pagato l’armatore, ma al momento di uscire si è rifiutato. Dopo aver capito al telefono che non sarebbe arrivato, un frangente mi sbatte a terra e un secondo mi fa spiaggiare tra gli scogli di Santa Lucia. Ma sbarco, felice di essere vivo e di aver compiuto l’impresa.
Dopo 22 giorni di oceano, con la borsa dei documenti mi avvio a piedi nel buio al posto di pubblica sicurezza più vicino. Trattenuto, non sono riuscito a fare ritorno alla barca prima di tre giorni. Qualcuno l’aveva saccheggiata, rendendola di fatto un relitto.
E’ stata l’esperienza che cercavo. Ho capito che stare in mare per me è quello che conta. Nella scomodità della mia Star, mi sono sentito molto più a mio agio che nel benessere a terra e della civiltà”.